Primi piatti: l’organizzazione sapiente della buona tavola
21 Marzo 2014 da francescomargherita
Pochi sanno che nella patria dell’alta cucina, la Francia, anticamente le portate di un pranzo erano servite tutte assieme contemporaneamente, e sulla tavola si adoperavano gli scaldavivande per i piatti caldi. Fu solo nell’Ottocento che, per permettere ai commensali di scegliere cosa mangiare con più agio, secondo i propri gusti e il proprio appetito, si codificò la successione delle pietanze e nacque il Menù. Ebbene sì, fino ad Antonin Careme, autore de L’arte della cucina francese del XIX secolo, non si parla di “primi piatti” ma semplicemente di “pietanze”, più o meno elaborate, secondo la moda del tempo.
L’organizzazione delle cucine e del servizio
L’invenzione in realtà fu l’esito di una più efficace organizzazione della cucina e del servizio. Imbandire la tavola con tutte le vivande assieme era sicuramente molto scenografico ma assai poco pratico, soprattutto per chi doveva consumare il pasto, in verità. La successione dei cibi, infatti risponde da sempre a un criterio di maggiore o minore intensità dei sapori, untuosità dei piatti, tenore delle bevande. I primi piatti, che negli ultimi decenni hanno assunto una valenza impropria, dovrebbero costituire una sorta d’introduzione per il palato ai piaceri del pasto: in altre parole, non dovrebbero mai essere troppo pesanti.
S’inizia sempre con una zuppa
Nella nuova organizzazione culinaria dell’Ottocento, i primi piatti codificati sono sostanzialmente consommé o potage, cioè minestre: una prelibatezza calda e avvolgente che lasciava presagire i piaceri del menù senza svelare troppo e troppo in fretta. Preliminari indispensabili per vivere il pasto come esperienza sensoriale, al contrario delle abbuffate cui siamo abituati oggi, purtroppo. Ricordiamo tutti la magistrale ouverture con il celeberrimo “brodo di tartaruga” ne Il Pranzo di Babette, o la severa raccomandazione del maître milanese ai rozzi avventori, in Totò Peppino e i fuorilegge: “s’inizia sempre con una zuppa”.
Una prassi da gourmet che era anche un’espediente per ottimizzare i tempi di elaborazione dei piatti successivi e gestire l’organizzazione complessiva del servizio in modo più efficiente e razionale, mentre i commensali consumavano i fumanti primi piatti. Insomma, dall’Ottocento in poi, per aristocratici e borghesi, il pasto è un rito culturale e sociale e va celebrato rispettandone le fasi codificate che, a loro volta, aiutano la brigata di cucina a gestire tempi e cotture in modo impeccabile.
Dai primi piatti al piatto unico
Oggi, invece, complice la crisi economica o, piuttosto, la fretta delle nostre vite disordinate, la successione tradizionale delle portate non sembra più essere sostenibile, sia dal punto di vista calorico (chi riesce a mandar giù un pasto da cinque o sei portate?), che da quello pratico. Nel breve tempo che concediamo ai piaceri del palato, non c’è più spazio per un’ouverture! E infatti, nelle nostre abitudini si è affermato il piatto unico, tipico delle tradizioni etniche, caratterizzate da cucine assai più essenziali di quella europea. Col piatto unico ci procuriamo con superficialità una botta calorica da mandare giù nell’arco di cinque minuti, con scarsa soddisfazione per il palato e molto stress nell’organizzazione complessiva.
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