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E’ diffamazione insultare su Facebook senza fare nomi

15 Aprile 2024 da dagata

E’ diffamazione insultare su Facebook senza fare nomi. Rischia una condanna per diffamazione chi offende sui social e ciò anche se non ha fatto nomi ma le brutte parole sono riconducibili alla persona presa di mira. La ha deciso la quinta sezione penale della Cassazione

Attenzione a usare correttamente i social network. Rischia infatti una condanna per diffamazione chi offende un altro sulla bacheca Facebook se, pur non mettendo il nome, lo renda individuabile ai lettori, in questo caso con una fotografia. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza 14345/24 dell’8 aprile 2024, ha condannato una donna per aver dato del ladro all’intermediario che aveva curato la sua locazione, scambiandolo per l’inquilino moroso. Per gli Ermellini, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, ha ricordato che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone. E poi, aggiunge il Collegio di legittimità, essendo il reato di diffamazione configurabile in presenza di un’offesa alla reputazione di una persona determinata, esso può ritenersi sussistente nel caso in cui vengano pronunciate o scritte espressioni offensive riferite a soggetti individuati o individuabili. Pertanto, qualora l’espressione lesiva dell’altrui reputazione sia riferibile, ancorché in assenza di indicazioni nominative, ad un novero di più persone, individuabili e individuate sulla base di indici rivelatori, ciascuna di esse può ragionevolmente sentirsi destinataria di detta espressione, con conseguente configurabilità del reato de quo”. Per Piazza Cavour, dunque, la decisione dei giudici di merito appare assolutamente in linea con tali principi, in quanto proprio in ragione del contenuto dei post inviati sul profilo “Facebook” della donna, corredati dalle fotografie raffiguranti l’imputato, quest’ultimo era certamente individuabile.

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