Made in Italy e vini italiani da tutelare. Condannato il venditore di wine kit con nomi di vini italiani se non può provare che il mosto proviene da vitigni nostrani
15 Aprile 2020 da dagata
Made in Italy e vini italiani da tutelare. Condannato il venditore di wine kit con nomi di vini italiani se non può provare che il mosto proviene da vitigni nostrani. Mettere in commercio kit con mosto per produrre una bevanda al gusto di vino, con l’effige del tricolore e i nomi tipici di alcuni vini nazionali induce in errore il consumatore sulla loro effettiva origine
Il Made in Italy, lo ripetiamo da sempre noi dello “Sportello dei Diritti”, dev’essere protetto nel migliore dei modi e la tutela penale può costituire forse il miglior deterrente dalla miriade di tentativi d’imitazione. In tal senso, con una sentenza recentissima, la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza 9357/20, pubblicata il 9 marzo scorso, ha ribadito che dev’essere condannato chi vende wine kit con nomi di vini italiani se non dimostra che il mosto proviene da nostri vitigni. I wine kit, per chi ignorasse il termine anglosassone, non sono altro che dei box che contengono tutto il necessario – almeno così promettono – per farsi, in diversi modi, del vino in casa. Nella fattispecie arrivata all’attenzione dei giudici della Suprema Corte, in particolare, è stato rigettato il ricorso del proprietario di una società che aveva messo in commercio in Canada wine kit contenenti mosto per produrre una bevanda al gusto di vino evocativa di alcune delle migliori etichette del Belpaese senza dimostrare che i mosti utilizzati provenissero da vitigni italiani. Nel confermare la condanna da parte della Corte d’Appello di Bologna, i giudici di legittimità non solo hanno sostenuto che l’imputato non aveva documentato la provenienza italiana dei mosti e la prova era di agevole dimostrazione ove effettivamente esistente. Ma ciò che più ritiene più rilevante nella decisione in commento ai fini della tutela dei nostri prodotti, per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, è che l’indicazione fallace del marchio di provenienza o di origine impressi sui prodotti presentati alla dogana, attraverso indicazioni false e fuorvianti, era idonea a far ritenere al consumatore che la merce fosse di provenienza italiana. Infatti, per gli ermellini, «l’indicazione nelle confezioni di vini italiani a denominazione di origine protetta (quali “Amarone”, “Barbera”, Bardolino” e numerosi altri), la dicitura “vino italiano”, le effigi del tricolore italiano e del Colosseo sono elementi idonei a ingenerare nel consumatore la falsa convinzione dell’origine italiana – non ovviamente del “vino” ma – del mosto medesimo, utilizzando per la preparazione della bevanda». E per tali ragioni, per i giudici di piazza Cavour va espresso il seguente principio di diritto: «integra il reato previsto dall’art. 517 cod. pen., in relazione all’art. 4, comma 49, della legge n. 350 del 2003, la messa in circolazione di una bevanda, da comporre ad opera del consumatore, evocativa del gusto di un vino “doc” italiano, nel caso in cui il mosto, fornito dal venditore, non provenga, diversamente da quanto desumibile dalla confezione (recante l’indicazione di vini italiani, le effigi della bandiera italiana e del Colosseo), da vitigni italiani».
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