Mobbing e Cassazione penale: condannato il datore lavoro per maltrattamentimobbing d
24 Giugno 2021 da dagata
Mobbing: va condannato il datore per maltrattamenti perché le relazioni in un ristretto ambiente di lavoro integrano un rapporto para-familiare
Dev’essere condannato il datore di lavoro se l’ambito è ristretto e il lavoratore subordinato trascorre la maggior parte della sua giornata a stretto contatto con gli altri colleghi e il titolare. In tali casi si instaura un rapporto di tipo para-familiare e, quindi, se vengono reiterate condotte vessatorie e offensive ai danni dei dipendenti, il “capo” sarà responsabile di maltrattamenti contro familiari. Lo ribadisce la sentenza n. 23104/21 pubblicata in data odierna dalla terza sezione penale che per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, associazione da anni impegnata nella tutela delle vittime del mobbing, assume una rilevanza proprio in tale ambito e costituisce un ulteriore significativo precedente in materia. Nel caso in questione il titolare di una farmacia era stato rinviato a giudizio, oltrechè per alcuni reati, anche per maltrattamenti contro i familiari ai danni di due sottoposte, vessate e offese quotidianamente. L’imputato ricorreva avverso la sentenza della Corte d’Appello, ritenendo non potersi configurarsi il reato in questione, stabilito dall’art. 572 del codice penale, in quanto le dipendenti non erano legate da vincoli familiari. Proprio in questo ha errato: infatti, come rilevato dal Tribunale prima e poi confermato dalla Corte territoriale, la farmacia dove si consumarono i fatti, era un luogo assai «limitato» e i dipendenti trascorrevano la maggior parte delle loro giornate a stretto contatto, circostanze del tutto assimilabili a quelle del «consorzio familiare». I giudici di legittimità sulla scia di altri precedenti, hanno sostenuto l’infondatezza del ricorso perché, nell’ambito dei reati contro l’assistenza familiare sono comprese anche le fattispecie «la cui portata supera i confini della famiglia legittima o di fatto». Il rapporto deve, in buona sostanza, essere caratterizzato da «familiarità» nel senso che, pur non inquadrandosi nel contesto tipico della “famiglia”, deve comportare, tra le altre cose, relazioni «abituali e intense e la soggezione di una parte nei confronti dell’altra». La conseguenza di tali principi è che il bene giuridico protetto dall’incriminazione non si identifica «nella sola protezione della famiglia, in quanto tale, ma nella tutela della personalità e dunque della dignità tanto delle persone inserite in un contesto familiare o di convivenza quanto di quelle sottoposte ad altrui autorità». Il datore di lavoro/imputato, d’altra parte, ritiene che il rapporto di para-familiarità deve tradursi, ai fini del reato in oggetto, non in una generica presenza sul luogo di lavoro, ma in una stretta e intensa relazione diretta tra datore e dipendente, caratterizzata dalla condivisione di tutti i momenti tipici del contesto familiare, ad esempio il consumo dei pasti o il pernottamento negli stessi luoghi. Ciò che omette di considerare, tuttavia, è che il legislatore ha aggiunto, ai maltrattamenti in famiglia, tutte le condotte maltrattanti commesse nei confronti di «ogni persona sottoposta all’autorità dell’agente». Per gli ermellini, dunque, la sentenza della Corte d’Appello è condivisibile, avendo messo in evidenza che il luogo di lavoro «era assai limitato e, al suo interno, le mansioni di ciascun dipendente venivano quotidianamente svolte a stretto contatto, anche fisico, degli altri dipendenti e del datore, il quale esercitava il potere direttivo in un ambiente di tipo familiare».
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