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Senso di colpa e giustizia impotente, nel libro di Michele Comper una metafora ironica e spietata della società

21 Maggio 2021 da inpress

copertinaIl tema del senso di colpa, nella letteratura contemporanea, è stato declinato secondo due schemi. L’uno, riconducibile a Dostoevskij: la colpa cerca il castigo. L’altro a Kafka: il castigo trova la colpa. Nel libro di Michele Comper, “Giuseppe” (la Rondine edizioni, pp. 192, € 14,90), invece, c’è la colpa senza più il castigo.

Michele Comper (Rovereto, TN, 1967), giornalista, già collaboratore de “l’Adige”, lettore e rilettore di romanzi classici, dà alle stampe un geniale remake traslato d’un secolo, capovolto nella traiettoria e simmetrico nell’esito de “Il processo” di Franz Kafka.

“Giuseppe” è un romanzo distopico, nel quale l’autore rappresenta la nostra società in un futuro assai prossimo, ma prevedibile sulla base delle tendenze odierne. Il protagonista, Giuseppe, è schiacciato dal senso di colpa per aver ucciso un uomo accidentalmente. Ma nella società della post-verità e del relativismo etico, non c’è posto per il rimorso.

Vari personaggi, attratti dalla tragedia e incuranti del suo stato d’animo, lo rincorrono per offrirgli i loro servizi. C’è il testimone che può fornire una versione compiacente dei fatti, in cambio dell’esclusiva per le interviste su tivù e giornali, da cui spera di ottenere la necessaria visibilità per far decollare la sua (fino ad allora) modesta carriera artistica. C’è il giornalista a caccia di storie, che però devono essere “cucinate” a dovere perché siano appetitose e avvincenti per i suoi lettori. E poco importa se i fatti ne risultano stravolti. E c’è l’agente di spettacolo che vorrebbe fare di Giuseppe un fenomeno della rete con milioni di click e visualizzazioni. L’intera società è un grande circo mediatico. Persino i funerali della vittima si svolgono in diretta televisiva, con una scenografia studiata, la presentatrice sul palco e il regista dietro le quinte, per riprendere, tra uno spot pubblicitario e l’altro, lo spettacolo del dolore.

Giuseppe, sempre più ossessionato dalla colpa, vaga alla ricerca di una punizione per alleviare la sua sofferenza. Ma non la ottiene dalla giustizia terrena, affidata ormai a un software che giudica sulla base di un algoritmo e quantifica la pena in termini pecuniari. Né tanto meno dalla giustizia divina. I sacerdoti sono sostituiti da una comunità ecclesiale, i cui componenti fuggono dinanzi alla responsabilità di assolvere o condannare il responsabile di un peccato così grave. Il processo della nietzschiana morte di Dio è giunto alla dissoluzione dell’autorità e della giustizia.

Il protagonista, sempre più ossessionato dalla colpa, dopo aver trovato la forza di una visita sulla tomba della sua vittima, perderà la vita travolto da un’automobile. Il senso di colpa non si estinguerà con la sua morte ma si trasferirà al suo investitore. Come in un loop esistenziale dove la fine e l’inizio coincidono.

Se l’alter ego di Kafka, l’innocente Joseph K., è stato vittima di una giustizia onnipotente, quella dell’epoca dei regimi totalitari, il colpevole Giuseppe lo è di una giustizia impotente, quella dell’epoca dell’individuo. Una metafora ironica e spietata della nostra società.

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