Intervista all’artista Aurora Bonanno Conti, in arte Ike in occasione della sua personale
9 Giugno 2018 da ufficiostampa
Alla Milano Art Gallery si attende con impazienza l’inaugurazione della mostra personale della rinomata artista Aurora Bonanno Conti, in arte Ike. Dal 18 giugno al 9 luglio la storica galleria, conosciuta come luogo di riferimento del Maurizio Costanzo Show, ospiterà le sue opere. Per prepararci a questo incontro, abbiamo voluto conoscerla meglio.
Signora Aurora Bonanno Conti, sappiamo che l’arte la trova coinvolta in più campi, dalla pittura alla musica, fino alla scrittura. Quando è cominciata questa passione?
«Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa, alla fine verrà fuori.»
Per la musica posso affermare che ho sognato sempre di suonare il pianoforte che studiai da bimba e che mio marito mi condusse a scoprire la bellezza della musica classica.
Per la scrittura invece, dopo la tesi di laurea, sempre. Un cupo inverno, sul treno per Ostiglia, la mia prima sede da preside, vennero fuori i primi versi sull’incontro con la morte: da piccola persi una cuginetta compagna di giochi.
Anche con il teatro l’incontro è stato precoce: papà e mamma quando avevo quattro anni mi condussero a vedere Il Trovatore al Massimo di Palermo.
Ike è il nome con cui si presenta nel mondo dell’arte. Ci spiega cosa significa e il perché di questa scelta?
Papà dipingeva per diletto, e io bambina ne “bevevo” i movimenti, i colori. Ma… ricordo ancora che sulle mie tenere spalle mi posero un’etichetta della scuola con scritto “asina in disegno”. Per anni non osai contraddirla.
In uno degli anni Sessanta ebbi in dono, da mia sorella Iris, due volumi sull’ikebana. Mi innamorai di quest’arte e la mia casa fu invasa da queste composizioni. Ma il “ricercare” mostra la sua dirompente potenza: su della stoffa di seta gialla dipingo con i pennelli di papà, da tempo lontano dalla terra, e con i colori a olio creo una composizione. IKE è la firma: quasi un senso di gratitudine verso quest’arte mi ha avviata a esprimere la mia interiorità con i colori.
Qual è stato il suo percorso per diventare un’artista?
In seguito scelsi il tema paesaggistico. Poi mi chiusi nel silenzio pittorico. Ma il desiderio del “comunicare” come mediazione del vivere si fa pressante. Bisogno che associai all’idea dell’arte nel suo aspetto originario, liberatorio e istintuale. Un’arte che mi offrisse lo spazio per riattivare le mie energie psichiche profonde e mi permettesse di esercitarle nel rapporto con me stessa e con gli altri. Ma ricercavo un linguaggio che aderisse al groviglio emozionale e una tecnica personalizzata. Approdai all’informale e all’uso delle stoffe come pennellate. Negli ultimi anni il mio io pittorico rimase imbrigliato nella musica-pittura che ho chiamato “musica visiva”. Per anni i miei dipinti rimasero nascosti nel timore che la mia interiorità si denudasse, mostrandoli. È il 1964 l’anno del primo dipinto, il 1992 della prima personale.
Immaginava di arrivare a un tale successo?
Successo, dal latino successus, che deriva da succedere, ossia venire dopo. Molte e significative le soddisfazioni: ma il “dopo” si scioglieva come neve al sole. Ecco perché affermo che non ho avuto successo. Le motivazioni? L’arte come una pianticella, preziosa e delicata, abbisogna di cure assidue. Famiglia e lavoro spesso mi suggerivano di abbandonarla. I miei lavori non sempre sono di facile lettura. A volte mi “impattavo” con “personaggi” che Dio lo avevano sostituito con il dio-denaro. Infine preziose offerte che varie volte si presentavano, lasciai che si dileguassero. Ogni volta si creava un inspiegabile impedimento.
Come artista, ricorda qual è stata la sua soddisfazione più grande?
Essere stata riconosciuta dal prof. Vittorio Sgarbi.
E anche quando in via dei Serpenti a Roma, dove avevo formato un gruppo di pittori e fotografi denominato “habitare l’arte”, Sergio Calligaris, illustre compositore e pianista concertista, si ferma per vari minuti dinanzi al mio lavoro ispirato alla sua composizione Danze sinfoniche Op. 26 Omaggio a Bellini. Riporto ciò che ha scritto: “È una sinfonia di colori che ho di fronte a me. È straordinario come Ike abbia interpretato così fedelmente e veementemente, attraverso la sua ricchissima gamma di colori, la mia decisione nell’assegnare ad ogni gruppo strumentale una ben definita tensione timbrica.
La travolgente ritmica del tratto e i contrasti violenti fra le zone d’ombra e di luce evocano con sconvolgente affinità i momenti più tumultuosi della mia composizione. Un lavoro rovente nella sua potenza espressiva”.
Quale la mostra che ritiene più importante per la sua carriera?
Artexpo New York, dove fui invitata a collaborare con la galleria “Can Contemporary Art Network – New York”. Ma ciascuna mostra contribuisce alla maturazione dell’artista.
Sappiamo che ha donato una delle sue opere a papa Giovanni Paolo II. Ci vuole raccontare cosa l’ha spinta a questo gesto?
La chiesa di via del Tritone, a Roma, appartiene alla venerabile Arciconfraternita dei siciliani a Roma, fondata nel 1594, di cui era stato Primicerio mons. Antonino Maria Travia, emerito elemosiniere di Sua Santità. Non osavo chiedere la sua amicizia. Ma quando fui in pensione – da anni volontaria per gli anziani e i giovani – osai. Nacque un dolce prezioso “comunicare” e, per anni, ogni sera alle 21 in punto “indelebili” lunghe telefonate. E quando stava male gli scrivevo. Lettere che dopo la sua morte – per me molto dolorosa – mi furono restituite. Una mattina telefonò per chiedere di mio marito che stava molto male: «Per tirarsi su, scriva una poesia sulla trascendenza.» Percepì il mio imbarazzo. Richiamò: «Forse un dipinto le verrà più facile.» Non volli deluderlo. All’offerta del dipinto, che egli apprezzò molto, rispose: «Alla mia morte le mie cose si disperderanno, ho un’idea migliore, lo doni al papa.». Il 7 gennaio del 2005, in ginocchio ai piedi del Padre Santo, i nostri sguardi si incontrarono: spento lontano l’uno, velato di pianto l’altro. Il dolore mi aveva serrato le labbra. E non ci fu neanche un grazie. Ora la sua presenza punteggia di serenità la mia solitudine.
Nel suo percorso artistico ha incontrato molti critici, tra cui il prof. Vittorio Sgarbi, che ha scritto di lei. Come si è sentita in questo caso?
Un amico comune, il dr. Turi Vasile, mi fece conoscere il prof. Vittorio Sgarbi. Ricordo l’emozione nell’aprire il plico che conteneva il suo scritto. Scritto che mi fece penare per il ritardo. Rivoltami alla sua mamma, la gentilissima signora Rina, lo ricevetti dopo pochi giorni. Nel ringraziarla per telefono, si complimentò per le parole scritte per me. Sono molto grata al prof. Vittorio Sgarbi, unico critico tra quelli da me conosciuti, ad essere andato oltre la tela, oltre i colori, oltre i segni, ad ascoltare il silenzio del libro e della mia sotterranea esistenza. Libro complesso, misterioso, povero e ricco, debole e forte, triste e gioioso. Ma prezioso. Unico.
Leibniz si chiedeva: a cosa del mondo somiglia la musica? E io: a cosa la poesia? E la pittura?
Musica, poesia e pittura non sono che tre segmenti della medesima retta, il cui inizio è la meraviglia – stupor – tra i limiti della realtà e della fantasia alla ricerca di sé al di là dei confini dove l’io diventa noi. Ogni musica, ogni poesia, ogni pittura è una storia. La storia di un’anima.
Una delle ultime mostre che l’ha vista protagonista è stata quella dedicata all’Arte delle donne, organizzata dal manager della cultura Salvo Nugnes e allestita nella Milano Art Gallery. In qualità di donna e di artista, che messaggio ha voluto apportare?
Da molti anni ero lontana dal mondo dell’arte, ma la “mattanza” delle donne mi ha spinta a partecipare a questa mostra con un dipinto presentato in una collettiva a Palazzo Barberini a Roma.
La donna “accoglie” il dolore. Gestisce le avversità. Consola. Ma, oggi, il confine tra la dimensione umana e la dimensione disumana è stato smarrito. Viene dimenticato di aver avuto in consegna dal padre dei padri una parola che sa di magia primordiale: il rispetto come regola del vivere, anzi, il “fuoco” dell’esistenza. Si ignora che la salvezza dell’uomo, cioè il raggiungere l’equilibrio tra lo spirito e la materia la danno la cultura e la fede. La cultura come conoscenza nel rispetto dell’umanità dell’uomo. La fede come certezza che la vita terrena ha senso se proiettata al di là del quotidiano.
Come è nato il connubio artistico con il direttore della Milano Art Gallery Salvo Nugnes?
A causa della scomparsa, durante il trasporto, del mio dipinto per l’Arte delle donne, il direttore Salvo Nugnes mi ha telefonato. Piano piano il velo di distacco burocratico si è frantumato. E si è giunti al “comunicare”. Percepisco sia la sua sensibilità di artista sia la sua apertura alla cultura. Gli confido il desiderio di realizzare nella sua galleria, centro di cultura, una mia personale con i lavori ispirati alla musica, impreziosita dalla critica del prof. Vittorio Sgarbi.
Da Kandinskij in poi, per molti pittori la musica è stata fonte di ispirazione espressa con tonalità cromatiche. Ma la musica, come ogni altra creazione artistica, è una proiezione simbolica (Susanne K. Langer) e come tale, perché la pittura la renda visibile, è necessario il simbolo che la intuisca, la espliciti. Quando un brano musicale mi “magnetizza”, irresistibile è il richiamo pittorico: il pennello impazza sulla tela a districare la ragnatela che tende i suoi filamenti tra il suono e il colore. E nella lotta per oltrepassare la materia, tempo e spazio si annullano e un nuovo spazio atemporale, quasi teofanico, afferma la sua spazialità a tessere un inquietante ordito che intreccia delusione e rabbia, dolore e gioia, sogno e speranza, preghiera, mutandosi in narrare. Narrare che, a volte, la parola poetica ne chiarisce il cammino.
Quali sono i suoi futuri progetti?
Ora vivo in un luogo imbevuto del verde di alberi secolari e dell’azzurro del mare che alimentano la mia passione del fotografare. Preparo una mostra dal titolo “Ascolta il silenzio”, e la teatralizzazione di un mio lavoro.
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