Danni alla persona. Il danno esistenziale dev’essere risarcito quando è causa di uno «sconvolgimento» della vita
11 Febbraio 2014 da dagata
Danni alla persona. Il danno esistenziale dev’essere risarcito quando è causa di uno «sconvolgimento» della vita. Per la Cassazione deve essere riconosciuto questo ristoro ai familiari e al convivente della vittima. Dev’essere riconosciuto anche il danno da “perdita della vita” trasmissibile agli eredi
Lo diciamo da anni che non è sufficiente angustiare entro il limite di tabelle predefinite i danni conseguenti alla perdita di un congiunto per poter offrire un minimo di ristoro ai cari sopravvissuti. Ma ne siamo ancor più convinti, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, tanto da continuare ad insistere nelle numerose azioni intraprese in questi anni a tutela dei danneggiati da gravi eventi, dopo l’importantissima sentenza n. 1361 pubblicata ieri 23 gennaio 2014 dalla Corte di Cassazione.
Infatti, con una decisione destinata a cambiare ancora una volta le “carte in tavola” a tutti coloro che intendevano limitare i danni conseguenti a gravi eventi della vita, la Suprema Corte ha ritenuto che il giudice deve liquidare qualunque pregiudizio a prescindere dal nome per dare integrale ristoro a chi li subisce. Per gli ermellini, è risarcibile il danno esistenziale quando provoca uno «sconvolgimento» della vita. Quindi, rilanciando l’importanza di questa voce di danno dopo alcune posizioni altalenanti, con una sentenza di ben centodieci pagine, i giudici della terza sezione civile–– ne hanno riconosciuto la possibilità del ristoro ai familiari, ai partner, anche per pregiudizi estetici o sessuali.
In sintesi, purché se ne fornisca dimostrazione, qualunque sconvolgimento dell’esistenza consente la possibilità di chiederne il risarcimento.
Nel lungo iter logico giuridico seguito dalla corte di legittimità si evidenzia come la liquidazione di tali tipi di danni debba essere effettuata necessariamente in via d’equità.
Ma v’è di più. I giudici del Palazzaccio hanno riconosciuto l’esistenza del danno alla perdita della vita come categoria autonoma del danno non patrimoniale e non annoverabile nel danno tanatologico o morale terminale.
Nella fattispecie la Suprema Corte ha stabilito, l’obbligo risarcitorio a carico di una compagnia di assicurazione, nei confronti dei figli di un uomo depresso, che si era suicidato a distanza di due anni dalla morte della moglie avvenuta in un incidente stradale.
Per spirito di brevità evidenziamo che i giudici di Piazza Cavour sottolineano che «il danno da perdita del rapporto parentale o cosiddetto danno esistenziale (che consiste nello sconvolgimento dell’esistenza sostanziatesi nello sconvolgimento delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione – sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare – in fondamentali e radicali scelte di vita diversa) risulta integrato in caso come nella specie di sconvolgimento della vita subito dal coniuge ( nel caso, il marito ) a causa della morte dell’altro coniuge ( nel caso, la moglie )».
Da mettere in evidenzia che con la stessa sentenza il collegio di nomofiliachia apre la strada al risarcimento del danno non patrimoniale da “perdita della vita”, trasmissibile, in quanto categoria autonoma, agli eredi. Secondo i giudici tale tipo di voce riparatoria è ammessa anche se l’agonia della vittima è durata poche ore. La liquidazione di tale voce è equitativa e non è contemplata dalle Tabelle di Milano.
È interessante riportare le motivazioni che portano i giudici di legittimità a stabilire sul punto che: «costituisce danno non patrimoniale altresì il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile garantito in via primaria da parte dell’ordinamento, anche sul piano della tutela civilistica». Inoltre, non essendo il danno da perdita della vita della vittima contemplato dalle Tabelle di Milano, è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice di merito l’individuazione dei criteri di relativa valutazione che consentano di pervenire alla liquidazione di un ristoro equo, nel significato delineato dalla giurisprudenza di legittimità, non apparendo pertanto idonea una soluzione di carattere meramente soggettivo, né la determinazione di un ammontare uguale per tutti, a prescindere cioè dalla relativa personalizzazione, in considerazione in particolare dell’età delle condizioni di salute e delle speranze di vita futura, dell’attività svolta, delle condizioni personali e familiari della vittima».
In ultimo è da evidenziare la precisazione della Corte che, rilevato il cambiato di rotta in materia, ha sottolineato come tale interpretazione non ha come conseguenza la cosiddetta “prospective overruling”, ossia che il cambiamento di orientamento è applicabile anche retroattivamente.
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